Giosuè 1:9
Fra le novelle di Cechov ce n’è una intitolata “Angoscia”. Il vecchio vetturino Jona Potapov è vedovo, e da poco ha perso anche l’unico figlio. Con il cuore colmo di angoscia si dice: “Ci sarà pure tra migliaia di persone una che mi ascolti”. Si avvicina un militare, vuole essere trasportato subito in un posto della città. Jona comincia: “Sa, in questa settimana è morto mio figlio…” Ma l’altro non gli dà retta e, appena giunto alla meta, paga e se ne va senza dire una parola. In seguito tre giovani si fanno portare dal vetturino. “Sapete – comincia Jona – in questa settimana è morto mio figlio”. “Tutti moriremo, pazienza!” rispondono i tre giovani. Il rivolo di angoscia in Jona si gonfia, diventa torrente. Si avvicina a un altro vetturino e gli dice: “Sai, questa settimana ho perduto l’unico figlio”. Il collega risponde con un “ah, sì!” annoiato e distratto si stiracchia e si addormenta. L’angoscia di Jona da torrente è diventata un fiume. Tornato a casa, non può dormire. La pena che ha dentro è tanta. Si alza, scende nella stalla, si avvicina al cavallo; “era buono, forte, paziente ecc.. e d’improvviso me l’hanno portato via”. Il cavallo ascolta mentre il suo padrone parla da solo.
Pascal racconta: “A volte resto sveglio, in attesa di una voce che gridi: ‘Ti voglio bene'”. Lichtenberg riferisce: “L’uomo desidera intensamente la compagnia, fosse anche solo la compagnia di una candela accesa”.
A volte si vive, si dorme e si muore a dieci centimetri di distanza senza conoscersi e senza chiamarsi per nome. Si rischia, come è capitato, di morire in solitudine e di essere scoperto cadavere quattro mesi dopo. Oggi, molti vivono nella propria casetta con un cartello sulla porta che dice: “Attenti al cane”. Aveva ragione lo scrittore Daniel Pierrot che scrisse: “Gli uomini hanno costruito troppi muri, e troppi pochi ponti”.
Chi riuscirà in questo mondo a confortare il nostro cuore nei momenti di smarrimento e di solitudine? Chi riuscirà a lenire le nostre ferite?
Giacobbe, quando fuggì dalla casa paterna, solo, con un semplice bastone tra le mani, oppresso da una grande angoscia, doveva percorrere centinaia di chilometri attraverso paesi di tribù selvagge e nomadi. In questa terribile solitudine avvertì, come mai prima, la necessità della protezione divina. Stanco per il cammino, si sdraiò sul terreno. Nel sonno vide una scala luminosa e risplendente che collegava il cielo con la terra; gli angeli salivano e scendevano. In alto c’era Dio che dal cielo disse: “Ecco, io sono con te, e ti guarderò dovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese; poiché io non ti abbandonerò”. In quel momento di particolare solitudine e tristezza, Giacobbe ricevette queste parole di conforto e di incoraggiamento.
All’inizio del Nuovo Testamento troviamo una donna: Anna, la profetessa. La vita di questa donna avrebbe potuto essere senza speranza. A sette anni dalla sua verginità aveva perso il marito. Ancora oggi, in Medio Oriente una vedova viene praticamente a trovarsi con un piede nella fossa quando le muore il marito. I medici inglesi, analizzando i casi di un gran numero di vedovi, scoprirono che gran parte di loro morivano entro i primi sei mesi dal decesso della loro moglie e il cinquanta per cento di questi per infarto cardiaco. Anna, per circa sessant’anni, ha vissuto da sola. La Bibbia ce la presenta come una donna piena di fede e di speranza. Quale fu il segreto di questa donna? Se Dio dimora in noi, anche se viviamo nell’isolamento e nelle tribolazioni, la sua presenza c’impedisce di vivere in una solitudine disperata. Paolo disse infatti: “Noi possiamo essere tribolati, atterrati, perplessi, perseguitati, ma né disperati né abbandonati”. Anzi, dice ancora: “Io trabocco d’allegrezza in tutte le nostre afflizioni”.
Giovanni Negro