Francesco Zenzale
“Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni” (Matteo 15:19).
In Vivere riconciliati A. Cencini scrive: “La difficoltà a perdonare ci rivela noi stessi, ci fa capire, al di là dei nostri propositi e illusioni di perfezione, che esiste in noi un istinto di aggressività; distrugge il mito dell’io tutto buono che ama Dio e il prossimo, e ci fa scoprire l’io ostile, attratto dal male. C’è della violenza nel nostro cuore, sarebbe ingenuo e pericoloso negarlo; ed è proprio tale impulso che vorrebbe impedirci di essere misericordiosi.
Il perdono frustra l’istinto di violenza, perché è una forma, forse la più umile ed efficace, di non violenza. Perdonare è gettare le armi dei nostri ricatti psicologici, è abbandonare i desideri sottili di vendetta, è rinunciare a farsi giustizia. Chi non perdona ha l’impressione di gratificare il suo istinto di violenza, ma sentirà, a un certo punto, rivolta contro di sé l’aggressività che ha proiettato. È la storia di chi si porta dentro rancori e si ritrova depresso e rabbioso.
Un’altra tendenza che ci complica il perdono è l’istinto del domino. Tale impulso – innato e universale anch’esso – ci spinge a controllare gli altri, ad avere il sopravvento su di essi, a influenzare la loro condotta, a comandare o vietare. Attraverso la soddisfazione di questo istinto ci sentiamo un po’ onnipotenti, cosa che ci gratifica parecchio.
Da questo punto di vista il perdono, invece, non ci gratifica, per niente, è un’esperienza di impotenza e di dipendenza, non di potere e di dominio. Quando si perdona ci si abbandona in qualche modo all’altro al suo potere, ci si espone alla sua imprevedibilità e gli si lascia la libertà di offendere e di ferire, rinunciando anche al diritto di fargli capire che ci sente offesi. Tutto questo ci fa paura, è come un insulto alla nostra dignità personale; e allora per giustificare la nostra incapacità di perdono e i nostri atteggiamenti risentiti ricorriamo a false pretese pedagogiche, dando al nostro comportamento da offeso il valore d’una lezione salutare per l’altro (‘faccio il sostenuto così impara…’, ‘non gli rivolgo la parola, così un’altra volta starà più attento’, ‘devo fargli capire che mi ha ferito, così non lo farà più…’). La verità è che il perdono chiede una grande libertà interiore, quella che ci toglie la stupida paura di perdere nei confronti dell’altro e di non farsi abbastanza temere, di non contare nulla, d’essere deboli perché non si fan valere le proprie ragioni e diritti, di consentire soprusi perché non si condanna nessuno”.
L’esperienza del ladrone sulla croce (Luca 23:39-43) è eloquente sul modo come Dio ci invita a offrire il perdono. Mentre i capi rinnegavano Gesù e perfino i suoi discepoli dubitavano della sua divinità, quel povero ladrone, sulla soglia dell’eternità, reo confesso di una vita spesa male, riconosceva Gesù come suo Signore. Molti erano pronti a chiamarlo Signore quando compiva dei miracoli e quando risuscitava i morti; ma nessuno, eccetto quel ladrone salvato nell’ultima ora, lo riconosceva mentre agonizzava là sulla croce. Le parole di perdono rivolte al ladrone penitente accendevano una luce che avrebbe illuminato anche gli estremi limiti della terra. Anche i nostri cuori!