Notizie Avventiste/Francesco Zenzale
“Felice l’uomo che ha compassione, dà in prestito e amministra i suoi affari con giustizia” (Salmo 112:5). “Vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore” (Matteo 9:36).
Se qualcuno vi chiedesse se siete capaci di compassione, forse rispondereste senza esitazione di sì. O perlomeno: “Credo di sì”. Ma soffermandoci a considerare il vocabolo compassione, rispondere diventa più complicato, perché il termine viene da un etimo che significa letteralmente “soffrire con”. Mostrare compassione significa partecipare alla “passione”, alla sofferenza di un altro. La compassione, intesa in questo modo, esige da noi qualcosa di più di un mero moto di pietà o di una semplice frase che testimoni la nostra solidarietà. Vivere con compassione significa entrare nei momenti difficili del prossimo. Entrare nei luoghi di dolore, non sottrarsi o voltarsi dall’altra parte quando il nostro prossimo soffre o si dispera. Significa stare là dove egli soffre. La compassione ci trattiene dal sentenziare spiegazioni sbrigative o zelanti quando la tragedia colpisce qualcuno che conosciamo o che amiamo.
Siamo soliti ignorare la sofferenza soprattutto quando cerchiamo di aiutare i nostri amici a elaborare velocemente il dolore. Siamo impazienti di trovare il modo di far tornare il sorriso a un bimbo, o di tirar su il morale a una zia ammalata. Ma nel farlo non agiamo tanto sotto la spinta di una vera, autentica “compassione”, quanto per il nostro bisogno di sottrarci al disagio che temiamo di provare. Segretamente, ciò che vogliamo è sempre fuggire da dove si soffre. Le nostre fughe ovviamente non aiutano gli altri, semmai li mettono sulla difensiva e li inducono a respingere quelli che sinceramente vorrebbero aiutarli.
Uno dei motivi per cui ci comportiamo in questo modo è il desiderio di eludere la nostra personale sofferenza. Opponiamo resistenza ad accostarci alla sofferenza altrui in parte perché non siamo disposti a soffrire noi stessi. Poichè la sofferenza degli altri ci fa pensare a ciò che potrebbe far soffrire noi. Questo ci turba. La nostra esitazione a guardare a viso aperto la sofferenza altrui, a stare a fianco di chi soffre, si traduce nell’obbligo per l’altro di recitare la parte di “quello che ce la può fare”.
Essere compassionevoli significa aprirsi alla sofferenza o ai bisogni del prossimo. “Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione” (Filippesi 2:1).