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Noi, Dio e il senso di colpa auto-imposto

Notizie Avventiste/Francesco Zenzale
“Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore. Mettimi alla prova e conosci i miei pensieri” (Salmo 129:23).
Il senso di colpa arriva a far parte della struttura emozionale di un individuo principalmente in due modi. Nel primo, è appreso in tenerissima età e persiste nell’adulto come residua reazione infantile. Nel secondo, l’adulto si auto-impone il senso di colpa per un’infrazione a un codice al quale professa di credere. Il senso di colpa residuo è la reazione emotiva scatenata da ricordi infantili. Frasi del tipo “Se lo fai un’altra volta papà si arrabbia”, “Dovresti vergognarti per quello che hai fatto”, usate dai genitori, contengono implicazioni che possono ancora ferire l’adulto se delude il capoufficio o altre persone nelle quali egli ravvisi i genitori.
Il senso di colpa auto-imposto comprende reazioni di colpa assai più tormentose delle prime. L’individuo è immobilizzato da cose che ha fatto di recente, ma che non sono necessariamente collegate alla sua infanzia. Si tratta del senso di colpa che ci si auto-impone allorché si viola una norma o il codice morale, ad esempio la legge di Dio. Ci si può contristare a lungo, benché il tormento non possa cambiare l’accaduto. Lo si prova anche quando abbiamo detto una frase infelice, messo qualcuno alla porta o non aiutato una persona nel bisogno, quando non siamo andati in chiesa perché troppo stanchi, ecc. Possiamo, considerare tale senso di colpa come il risultato del tentativo (fallito) di mettere in pratica la Parola di Dio e di essere coerente con quello in cui crediamo. Oppure, come reazione a certi standard che ci siamo imposti ma che in realtà non realizziamo, quali ad esempio fissare a priori un numero di capitoli della Bibbia da leggere ogni settimana, fare un favore a un vicino di casa, fare una bella sorpresa alla moglie per il suo compleanno, e così via. Il senso di colpa auto-imposto fa parte non solo della nostra fragilità, ma anche del nostro modo di vivere la religione, caratterizzato più dal dovere auto-imposto e dal fare, piuttosto che dall’essere in Cristo. Nel senso di colpa auto-imposto il credente è il solo auto-referente morale. Tale atteggiamento esclude l’attività dello Spirito Santo il quale è il solo che può “convincere di peccato” (Giovanni 16:18) e venire incontro alla nostra fragilità (Romani 8:26). Una religiosità così espressa non è in armonia con la semplicità e la fragilità dell’essere e della vita in generale e con la semplicità del vivere l’evangelo. Dal senso di colpa auto-imposto fluisce una risposta di auto-punizione e/o auto-assoluzione caratterizzata dal fare, dalla promessa di non peccare più, piuttosto che dall’accettazione della propria fragilità e dal perdono di Cristo.
“Questo soltanto ho trovato: che Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno cercato molti sotterfugi” (Ecclesiaste 7:29) per essere salvati e liberarsi dai sensi di colpa. “Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati” (Isaia 43: 25). La religiosità mal vissuta crea degli uomini schiavi di se stessi, complessati e depressi, per questo Gesù ha affermato: “Conoscerete la verità (Gesù Cristo) e la verità (Gesù Cristo) vi farà liberi” (Giovanni 8:32, 14:6). Conoscere Gesù Cristo è importante, ma viverlo lo è ancora di più!