Francesco Zenzale
Il digiuno non ha alcun valore magico-salvifico. La Parola di Dio presenta il digiuno non come un mezzo per ottenere qualcosa (miracoli, salvezza o quant’altro) e non è un “rito” che si deve rinnovare o “commemorare” periodicamente: la legge imponeva in Israele il digiuno soltanto nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur) (Levitico 16: 19-31; 23: 27-32; Numeri 29:7). Il digiuno è un’esperienza spirituale vissuta in determinati momenti della vita caratterizzati da eventi significativi, soprattutto luttuosi (1 Samuele 31:13; 2 Samuele 1:12; 3:35) o di particolare gravità.
Generalmente durava fino al tramonto del sole, ma talvolta si prolungava per parecchi giorni ed era interrotto la sera con una parca cena (2 Samuele 3:35; Geremia 16:7; Ezechiele 24:17, 22; Osea 9:4). Si digiunava anche per predisporsi al rapporto con Dio (Esodo 34:28; Deuteronomio 9:9; Daniele 9:3). Digiunava il singolo quando era tormentato da gravi preoccupazioni (2 Samuele 12: 16-23; 1 Re 21:27; Salmo 35.13; 69: 11). Il popolo digiunava sotto la minaccia della guerra e della distruzione (2 Cronache20:3; Ester 4:16, ecc.), per la buona riuscita del rimpatrio (Esdra 8: 21s), in segno di espiazione (Neemia 9:1), in connessione alle lamentazioni funebri (2Sam 1:12).
Un’immagine che può aiutare ad afferrarne il significato è quella di un bambino che corre tra le braccia della mamma in cerca di conforto, perché spaventato da un evento disagiante. Il digiuno dunque è espressione di fiducia: un atto di abbandono a Dio. Un chiudere gli occhi e lasciarsi portare dalla corrente della grazia di Dio che offre salute e conforto, amore e fiducia, speranza e forza ogni volta che ci troviamo immersi nei momenti più terribili della vita. Un vivere la nostra fragilità ricordando la promessa di Gesù: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:20; cfr. Ebrei 13:5).
Il digiuno, però, è più che un lasciarsi vezzeggiare da Dio. Isaia 58 contiene una pressante raccomandazione a osservare debitamente il digiuno, che non consiste tanto nell’astenersi dal cibo e nel fare penitenza, quanto nel praticare la giustizia e la carità. Il digiuno indicato dalla Parola di Dio è più che una semplice formalità. La pericope consta di vari elementi: appello ad annunciare a “squarcia gola” o senza indugio e con trasparenza il peccato (vv. 1,2), ciò implica la consapevolezza della propria fragilità; lamentazione che svela un comportamento caratterizzato dall’interesse personale e dalla malvagità (vv. 3, 4); esortazione a porre fine all’ipocrisia (v. 5); invito a praticare la pietà cristiana, contrassegnata dalla condivisione dei beni, dall’equità, da un impegno socialmente utile (vv. 6,7), in altre parole una spiritualità che abbia un riscontro nel quotidiano; promessa gratificante non solo nella prospettiva escatologica, ma anche nell’immediato (vv. 8-12).
Il profeta evidenzia che digiuno e preghiera acquisiscono un valore illusorio se siamo lontani da Dio, se adottiamo un comportamento scorretto nei confronti del prossimo. Infatti, le promesse di benedizioni sono introdotte con l’avverbio di tempo che ne indica la consequenzialità: “Allora la tua luce spunterà come l’aurora […] Allora chiamerai e il Signore ti risponderà” (Isaia 58:8-9).