Francesco Zenzale
La parola chiesa, nell’immaginario collettivo, soprattutto di estrazione cattolica, equivale al luogo di culto. Ad esempio, quando diciamo “andiamo in chiesa” non pensiamo minimamente a dei fratelli e a delle sorelle che si vogliono bene, che condividono la parola e la speranza, ma ad un luogo consacrato al culto o all’adorazione. Ciò significa che l’adorazione è orientata sul comportamento da tenere nel luogo in cui si pensa di adorare Dio, a prescindere dalla persona che ha bisogno di amore, di misericordia, di rispetto e di condivisione. Un malinteso piuttosto singolare, perché l’adorazione può essere vissuta nell’ipocrisia e/o nella forma. Manca il significante che è l’altro; il quale pur essendo nello stesso luogo e accanto a noi è un avulso, una persona di cui diffidare e che in qualche modo ci fa paura. Secondo l’insegnamento di Gesù (Matteo 19: 29; cfr Efesini 2: 19-22), andare in chiesa significa incontrare l’altro nella sua diversità, nei suoi bisogni e nel suo divenire in Cristo; adorare Dio nella comunione fraterna, caratterizzata dal reciproco rispetto (Romani 12:9-10), dal riconoscimento dell’altro come fratello e sorella in Cristo.
Parafrasando l’affermazione “Ecclesia semper reformanda est”, alla luce di quanto espresso diremmo “Homo semper reformando est”. La conversione e l’adorazione hanno a che fare con l’uomo e con lo stile di vita, e non solo con lo spazio che occupa nel tempo in cui egli vive. Pertanto non è il luogo che deve essere consacrato o dedicato all’adorazione, aspetto che delle volte, nel modus operandi assume un significato magico salvifico, bensì l’uomo. L’apostolo Paolo invita il credente a presentare la propria vita come profumo d’odore soave al Signore (Romani 12:1). Il comportamento nel luogo dove si prega, si canta, si ascolta la Parola deve essere preceduto da una mente riformata dalla grazia di Dio.