Perché abbiamo paura della morte?
Di tutte le paure che affliggono l’umanità, nessuna è più deprimente di quella che riguarda la perdita di una persona cara. Tutto ciò che abbiamo costruito, per cui abbiamo lottiamo e forse sacrificato anche gli affetti più cari, svanisce! Marc Oraison, medico, teologo e sacerdote francese, ha definito la morte «una tragica perdita di tempo». Scrive l’Ecclesiaste: «Godi la vita con la moglie che ami, per tutti i giorni della vita della tua vanità, che Dio ti ha data sotto il sole per tutto il tempo della tua vanità; poiché questa è la tua parte nella vita, in mezzo a tutta la fatica che sostieni sotto il sole. Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze; poiché nel soggiorno dei morti dove vai, non c’è più né lavoro, né pensiero, né scienza, né saggezza» (Ecclesiaste 9:9-10). Forse la maggior parte delle persone preferisce non pensare alla morte e pensa a godersi la vita e a occuparsi di ciò che procura piacere e non dispiacere. Ma anche questa ossessiva rimozione rischia di diventare una maschera dietro la quale nascondono l’ansia e il timore di perdere definitivamente quello che hanno di più caro. Altri, invece, sono convinti che la morte sia la fine di tutto, per questo motivo s’impegnano a realizzare, entro il breve arco della propria esistenza, tutti i loro sogni. È un dato di fatto che la morte sia una crisi di svincolo impossibile da evitare; ce lo ricordano gli ospedali, i cimiteri, i ricordi dei volti cari di quelli che non ci sono più. Altri ancora vorrebbero rendere la morte meno rugosa facendo credere che quando si muore in realtà si passa ad un’altra dimensione della vita. C’è una sterminata letteratura, numerose pellicole cinematografiche che, in un modo o nell’altro, vogliono farci credere che la morte non è la fine ma l’inizio, il nuovo compleanno, di un’esistenza che prosegue oltre il fossato… Certamente è consolatorio pensare che i nostri cari, da noi tanto amati, non sono caduti nel baratro del nulla, ma che proseguono a vivere in una dimensione luminosa. È una verità oppure una pietosa menzogna? La filosofia greca, le religioni orientali e forse anche alcuni cristiani ritengono che possa esistere una vita cosciente oltre la morte. Ma che cosa insegna la Parola di Dio? Esiste una speranza cristiana e su che cosa si basa? È meglio essere consolati da una verità nuda e cruda che offre la speranza del Risorto oppure essere lusingati da una menzogna «consolatrice»? Nel libro della speranza, l’Apocalisse, ci viene detto di non temere, perché Gesù è «il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dei morti» (Apocalisse 1: 18). Coloro che credono in Cristo sanno che egli ha le «chiavi» per aprire le tombe e pertanto il mistero della morte è nelle mani di colui che è l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, colui che apre e colui che chiude il cammino del credente: la nostra avanguardia che entra nel territorio del nemico (la morte) ma anche la nostra retroguardia che raccoglie i feriti. La Parola di Dio è l’annuncio della risurrezione, della vita eterna. Per questo Gesù è venuto, per mostrarci e per darci la vita eterna. Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu questo?» (Giovanni 11:25-26). Questo è il messaggio di Cristo. Chi nella propria fede, non ne è certo, non dovrebbe neanche illudersi di essere cristiano.
Che cos’è l’uomo? – Prima parte
«Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? l figlio dell’uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio, e l’hai coronato di gloria e d’onore. Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani, hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi: pecore e buoi tutti quanti e anche le bestie selvatiche della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, tutto quel che percorre i sentieri dei mari. O SIGNORE, Signore nostro, quant’è magnifico il tuo nome in tutta la terra!» – Salmo 8: 3 -9 La prima importante affermazione biblica per capire la natura umana si trova in Genesi 1:27: “E Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina”. Questa dichiarazione è di fondamentale importanza per la formulazione di un’antropologia biblica. Gli esseri umani sono degli esseri creati. In altre parole, noi siamo parte integrante del mondo creato. Ciò significa, in primo luogo, che abbiamo avuto un inizio. Non siamo, quindi, eterni e non apparteniamo al divino. Il nostro modo di esistere è essenzialmente differente da quello di Dio: Egli è sempre esistito; noi siamo venuti all’esistenza. Il nostro ruolo nel cuore dell’universo è quello di esseri creati. In secondo luogo, gli esseri umani sono esseri limitati. La loro esistenza è paragonabile a un prestito, quindi non è sufficiente a se stessa. Noi non siamo degli esseri indipendenti capaci di produrre energia propria in grado di garantire l’esistenza. Di conseguenza, come un giorno siamo venuti al mondo dal nulla, così possiamo tornare al nulla. Insomma, possiamo smettere di esistere. Tuttavia, benché la nostra vita ci sfugga, siamo chiamati a collaborare con il Creatore per preservarla: siamo degli amministratori della nostra vita. In terzo luogo, considerare gli esseri umani come creature significa che essi esistono nel tempo e nello spazio. Questi due elementi sono menzionati nel racconto della creazione. Adamo ed Eva furono creati nel sesto giorno, durante una frazione particolare del tempo. Pertanto noi siamo condizionati dal tempo. Adamo ed Eva sono venuti all’esistenza in un luogo particolare: il giardino d’Eden. Lo spazio costituisce la totalità del mondo creato. Il loro ambiente era la flora, la fauna e l’universo intero. Se lo spazio dove noi viviamo è distrutto, la nostra esistenza è in pericolo. La corretta gestione del mondo creato è dunque di importanza vitale. In breve, essere creature significa che non siamo il risultato di forze impersonali che agiscono nel cuore dell’universo, ma che siamo il frutto di un atto d’amore. La nostra esistenza è una manifestazione dell’amore disinteressato di Dio, un atto della sua grazia. L’Onnipotente ci ha creati perché, nel suo amore, ha visto che ciò era molto buono. L’amore di Dio, la sua grazia e la sua libertà hanno dato vita a un essere intelligente, che era ed è una parte del mondo creato e quindi differente dal suo Creatore. Questa creatura è capace di apprezzare tale amore e di ricambiarlo.
Che cos’è l’uomo? – Seconda parte
«Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente» (Genesi 2:7). La seconda importante affermazione biblica per capire la natura umana si trova in Genesi 2:7. Non deve sorprendere che questo testo costituisca il fondamento per la riflessione concernente la natura umana. Esso è, dopo tutto, l’unico racconto biblico che informi su come Dio abbia creato l’uomo. Il testo dice: «E il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli alitò nelle nari un fiato vitale; e l’uomo fu fatto anima vivente» (Diodati). La nuova Riveduta molto più correttamente traduce: «Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente». Storicamente, questo testo è stato letto attraverso le lenti del dualismo classico. È stato dato per scontato che l’alito di vita che Dio ha soffiato nelle narici dell’uomo fosse un’anima immateriale e immortale immessa da Dio nel corpo materiale. Alla luce di questa interpretazione, si sostiene che come la vita terrena ebbe inizio con l’innesto di un’anima immortale in un corpo fisico, così la fine avverrà quando l’anima lascerà il corpo. Genesi 2:7 è stato storicamente interpretato alla luce del dualismo tradizionale corpo-anima. Ciò che ha portato a questa errata e mistificante interpretazione va ricercato nel fatto che la parola ebraica nefesh, tradotta «anima» in Genesi 2:7, è stata intesa secondo la definizione tratta dal dizionario della lingua italiana: «Principio immateriale della vita dell’uomo contrapposta al corpo e tradizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del divino» o, ancora: «Principio spirituale incarnato in esseri umani» (G. DEVOTO E G.C. OLI, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Reader’s Digest, vol. 1, Milano, 1987 p. 139. Webster’s New Collegiate Dictionary, 1974, voce: «Soul»). Questa definizione riflette la concezione platonica dell’anima come essenza immateriale e immortale aggiunta al corpo, benché non ne faccia parte. Purtroppo per molti questo presupposto costituisce la chiave di lettura dell’Antico Testamento e si comprende nefesh alla luce del dualismo platonico anziché del concetto biblico dell’uomo. Come dice Claude Tresmontant: «Applicando all’ebraico nefesh (anima) le caratteristiche della psyche (anima) platonica, … facciamo sì che il vero significato di nefesh (anima) ci sfugga e, inoltre, rimaniamo con innumerevoli falsi problemi» (C. TRESMONTANT, A Study in Hebrew Thought, New York, 1960, p. 94. È il migliore studio per comprendere la differenza tra il pensiero ebraico e quello greco. Titolo originale Essai sur la pensée hébraïque, Paris, Cerf, 1962, p. 97). Coloro che interpretano le caratteristiche di nefesh nell’Antico Testamento (che nella versione inglese King James è tradotto «anima» ben 472 volte), partendo dal presupposto dualistico, avranno grande difficoltà a capire il concetto biblico unitario della natura umana, secondo il quale, corpo e anima costituiscono una manifestazione della stessa persona, vista da prospettive diverse. Queste persone, ancora, avranno difficoltà ad accettare il significato biblico dell’anima intesa come principio vitale per la vita umana e animale. Inoltre, sarà per loro difficile spiegare quei brani che parlano del cadavere come di un’anima (nefesh) morta (cfr. Lev 19:28; 21:1,11; 22:4; Nm 5:2; 6:6,11; 9:6,7,10; 19:11,13; Ag 2:13).
Che cosa significa l’espressione «immagine di Dio»?
«Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio, e l’hai coronato di gloria e d’onore» (Salmi 8: 3 – 5). La caratteristica distintiva della relazione dell’uomo con Dio è contenuta nell’espressione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza» (Gn 1:26; cfr. 5:1,3; 9:6). Per secoli i teologi hanno discusso sul significato dell’immagine di Dio nell’uomo. Sono state proposte differenti soluzioni. Alcuni ritengono che l’immagine sia la somiglianza fisica tra Dio e l’uomo, ma questa interpretazione presuppone che Dio abbia una natura corporea simile a quella degli esseri umani. Quest’idea contrasta con l’affermazione di Cristo che «Dio è spirito» (Gv 4:24) e quindi non legato allo spazio o alla materia come noi. Inoltre, i termini biblici legati all’aspetto fisico della natura umana, corpo (basar) e carne (sarx), non sono mai applicati a Dio. Altri pensano che l’immagine di Dio consista nell’aspetto non materiale della natura umana, cioè la sua anima spirituale. Questo modo di vedere la natura umana presuppone il dualismo corpo e anima che, però, il racconto della Genesi non ammette. L’uomo non ha ricevuto un’anima da Dio; è stato fatto anima vivente (Gen 2:7). Inoltre, nella Genesi si afferma che anche gli animali sono diventati «anime viventi», pur non essendo stati creati a immagine di Dio. Secondo la Parola di Dio l’immagine di Dio non è qualcosa che noi abbiamo, ma qualche cosa che noi siamo. L’immagine di Dio in noi non è localizzata in un elemento particolare della nostra persona, ma nella totalità del nostro essere. Nella creazione, l’immagine di Dio si rifletteva su tutti gli aspetti di Adamo e di Eva. L’immagine di Dio «è collegata alla capacità dell’uomo, su un livello limitato, di essere e agire in rapporto a ciò che Dio è e opera, su un livello illimitato. Il racconto della creazione sembra indicare che, mentre il sole domina il giorno, la luna la notte e i pesci il mare, l’umanità rappresenti Dio per il dominio che esercita su tutti questi regni (Gn 1:28,30). Nel Nuovo Testamento, l’immagine di Dio nell’umanità non è mai associata alla comunione maschio-femmina né alla somiglianza fisica o all’anima immateriale e spirituale, ma piuttosto alla capacità morale e razionale: «Vi siete rivestiti del nuovo, che si va rinnovando in conoscenza a immagine di colui che l’ha creato» (Col 3:10; Ef 4:24). Per lo stesso motivo, la conformità all’immagine di Cristo (cfr. Rm 8:29; 1 Cor 15:49) è generalmente percepita in termini di giustizia e santità. Nessuna di queste qualità è posseduta dagli animali. Ciò che distingue l’essere umano dagli animali sta nel fatto che la natura umana ha in sé delle possibilità divine. Per il fatto che siamo stati creati all’immagine di Dio, siamo in grado di rifletterne il carattere. Essere creati all’immagine di Dio significa, inoltre, che l’essere umano debba vedere se stesso come un individuo rivestito di significato, potenzialità e responsabilità. Significa che l’uomo è stato creato per riflettere Dio nella mente e nelle azioni. Egli può compiere, a un livello limitato, ciò che Dio opera a un livello illimitato. Scrive E. G. White: «L’uomo era l’immagine di Dio, nell’aspetto e nel carattere. Solo il Cristo è tuttavia «l’impronta dell’essenza…» (cfr. Ebrei 1:3) del Padre; l’uomo fu creato simile a Dio, intimamente conforme alla volontà divina. La sua mente poteva comprendere le realtà spirituali, i suoi sentimenti erano nobili, gli impulsi e le passioni erano controllati dalla ragione. Nella sua purezza, egli era felice di questa condizione di assoluta armonia con Dio»
(E.G. White, Patriarchi e Profeti, p. 31, ed. AdV (Impruneta – Fi)
Da dove veniamo e dove andiamo?
Ecco due domande che gli uomini si pongono da millenni. Se è vero che essi si preoccupano del problema della loro origine, è altrettanto certo che s’interessano, e forse di più, a quello del loro destino. Pascal, parlando del destino dell’uomo, disse che «bisogna aver perduto ogni sentimento per essere indifferenti a ciò che ne sarà». La Scrittura afferma che l’uomo è stato creato da Dio (Genesi 1: 27; 2.7) e non lo considera immortale né attribuisce immortalità all’anima. L’aggettivo «immortale», che si trova una sola volta nella Bibbia, è attribuito a Dio: «Al Re eterno, immortale, invisibile, all’unico Dio, siano onore e gloria nei secoli dei secoli» (1 Timoteo 1:17). Il sostantivo «immortalità», citato cinque volte, non è mai riferito alla condizione attuale dell’uomo. In 1 Timoteo, l’apostolo Paolo afferma chiaramente che «Dio solo possiede l’immortalità» (6:15,16). Dio, dopo averlo creato, gli disse: «Ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (Genesi 2:17). L’uomo, purtroppo, disobbedì andando incontro alla morte. Infatti, «Il salario del peccato è la morte» (Romani 6:23). L’uomo muore, ovvero cessa di esistere, ritorna ad essere polvere: «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai» (Genesi 3: 19). La Scrittura afferma che i defunti scendono nel soggiorno dei morti, o Sheôl-Ades. La parola ebraica Sheôl si trova sessantacinque volte nell’Antico Testamento, e il termine greco «Ades» è menzionato undici volte nel Nuovo. I due termini sono equivalenti. Lo Sheôl-Ades indica il sepolcro, la tomba, il soggiorno dei morti. «Così l’uomo giace, e non risorge più; finché non vi siano più cieli, egli non si risveglierà né sarà più destato dal suo sonno» (Giobbe 14:12). Nel soggiorno dei morti non c’è nessuna attività. I morti non sanno nulla: sono incoscienti; non sentono, non vedono, non soffrono e non godono: «dormono». Sulla base di quanto scritto dalla Bibbia, lo stato dei morti può riassumersi con queste cinque parole: silenzio, oblio, incoscienza, sonno, riposo. «Se il SIGNORE non fosse stato il mio aiuto, a quest’ora l’anima mia abiterebbe il luogo del silenzio» (Salmo 94:17; Salmo 115: 17; Ecclesiaste 9: 5-6). Ma, se il salario del peccato è la morte, «il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù» (Romani 6: 23). Gesù disse: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quelli che egli mi ha dati, ma che li risusciti nell’ultimo giorno. Poiché questa è la volontà del Padre mio: che chiunque contempla il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Giovanni 6:39,40). Quando Gesù ritornerà i morti in Cristo risusciteranno a riceveranno il dono della vita eterna (1 Tessalonicesi 4: 13-18) e avranno la gioia di evolversi nell’eternità. «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scender giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21: 1-4).
Significato di nefesch (anima)
Secondo la Parola di Dio, «La nefesch (anima) può avere fame (Sl 107:9), oppure sete (Sl 143:6), essere soddisfatta (Ge 31:14), mangiare bene (Is 55:2). La nefesch può anche amare (Gn 34:3; Cantico dei Cantici 1:7), commuoversi (Sl 31:10), gridare (Sl 116:4; Sl 119:10), conoscere (Sl 139:14), essere saggia (Pr 3:22), adorare e lodare Dio (Sl 103:1; 146:1)» (Jacques Doukhan, Il Grido del cielo, ed, AdV, Impruneta (Fi), p. 220). “Poiché tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione” (Sl 16:10). “Ecco, tutte le vite (anime, ebr. Nefesch) sono mie; è mia tanto la vita del padre quanto quella del figlio; chi pecca morirà” (Ez 18:4). “La persona (anima, ebr. Nefesch) che pecca è quella che morirà, il figlio non pagherà per l’iniquità del padre, e il padre non pagherà per l’iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l’empietà dell’empio sarà sull’empio” (Ez 18:20). Commentando Genesi 2:7, Hans Walter Wolff si chiede: «Che cosa significa in questo caso nefesh (anima)? Certamente non anima nel senso tradizionale dualistico. Nefesh dev’essere visto insieme con tutta la forma dell’uomo, e specialmente con il suo alito; inoltre, l’uomo non ha nefesh (anima), egli stesso è nefesh (anima), e vive come nefesh (anima)» (H. W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, (trad. E. Buli), Brescia, Queriniana, 1975, p. 18).. Il fatto che l’anima nella Bibbia rappresenti l’intera persona vivente è riconosciuto persino dallo studioso cattolico Dom Wulstan Mork che si esprime con questi termini: «È la nefesh che dà vita a basar (carne), ma non facendone una nuova sostanza distinta. Adamo non ha nefesh; egli è nefesh, come è basar. Il corpo, lungi dall’esser distinto dal principio che lo anima, è la stessa nefesh visibile» (W. MORK, Linee di antropologia biblica, (trad. L. Bono), Fossano, ed. Esperienza, 1971, p. 48).