Francesco Zenzale – “… Nello stesso istante quella parola si adempì su Nabucodonosor. Egli fu scacciato di mezzo agli uomini, mangiò l’erba come i buoi, il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne delle aquile e le sue unghie diventarono come quelle degli uccelli…” (Dn 4:28-33).
Licantropia? Molti studiosi hanno pensato a una forma di zoo-mania, una condizione di incapacità mentale in cui il malato si crede animale e come tale si comporta. La fantasia popolare gli ha dato il nome di “lupi mannari”, perché il malato imita il comportamento dei lupi.
Di fatto, non esiste una nosografia specifica nella quale inquadrare tale malessere, si tratta soltanto di una forma di delirio che si può esprimere in diversi disturbi psichiatrici di personalità di tipo paranoide o in alcune forme di psicosi.
Nel 1975, l’assiriologo A. K. Grayson pubblicò un testo cuneiforme frammentario che si trova nel British Museum (BM 34113) che lascia intuire la malattia del re. Questo testo contiene qualche riga leggibile in cui si parla d’una malattia mentale di Nabucodonosor: “… la mia vita sembrava che non avesse alcun valore… io non testimoniavo nessun amore per i miei figli e figlie… la mia famiglia e la tribù non esistevano più per me… la mia attenzione non era più diretta verso la cura di Esagila (il grande tempio di Babilonia)… piangevo amaramente davanti a Marduk”.
È certo che Nabucodonosor fu colto da un improvviso attacco di follia (per due volte, nei vv. 34 e 36, si allude a un recupero della ragione), ma data l’esiguità dei dettagli rilevabili nel testo, è impossibile dire che genere di malattia mentale lo avesse ridotto in uno stato così miserevole.
Indipendentemente dalle considerazioni esposte, nel leggere questa dolorosa esperienza penso a quanto Dio ami le sue creature, come egli, per salvare l’uomo, sia disposto a tutto, anche ad agire in modo incomprensibile per noi fragili creature. Il fine ultimo dell’esistenza umana è la vita eterna e non l’autodistruzione, e in tal senso, solo per Dio “il fine giustifica i mezzi”. Ciò non significa che Dio inibisce il “libero arbitrio”, ma semplicemente, per mezzo dello Spirito Santo e nei modi più insoliti, induce l’uomo alla consapevolezza del bisogno di essere salvato. A lui poi la scelta di rinunciare all’arrogante “podio” e con umiltà afferrare la gioia della salvezza.
Molti non sanno cosa sia la gioia della salvezza. Se la gustassero, ravvisando nel cuore la certezza del perdono divino, amandosi e amando (Mt 22:36-40), essa occuperebbe tutto lo spazio della vita che invece è incatenata dai sensi di colpa e dalla vergogna, dal non perdono, e dall’odio o, peggio, dall’indifferenza.
Signore, “purificami con issopo, e sarò puro; lavami, e sarò più bianco della neve. Fammi di nuovo udire canti di gioia e letizia, ed esulteranno quelle ossa che hai spezzate. Distogli lo sguardo dai miei peccati, e cancella tutte le mie colpe. O Dio, crea in me un cuore puro e rinnova dentro di me uno spirito ben saldo” (Sl 51: 7-10).
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