Francesco Zenzale – “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato l’universo” (Eb 1:1-2).
Prima di esaminare i capitoli del libro di Daniele da sette a dodici, in considerazione del genere letterario apocalittico, è saggio esaminare due particolari argomenti: il profetismo biblico e le modalità interpretative.
Una delle caratteristiche fondamentali della Bibbia, Parola di Dio, è la profezia. Il profeta è colui che riceve da Dio un messaggio, una conoscenza, un’informazione da comunicare al popolo. Egli è dunque l’intermediario o il mediatore tra Dio e gli uomini.
Secondo i racconti biblici, il messaggio giungeva al profeta attraverso un’esperienza definita a volte come “visione” o come “sogno”. “Se v’è tra voi alcun profeta, io, l’Eterno, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno” (Nm 12:6). La caratteristica essenziale di queste esperienze emerge dai diversi racconti fornitici da profeti come Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele.
In ogni caso, il profeta riceveva il messaggio attraverso un’esperienza intima e precisa. La visione o il sogno costituivano un evento specifico. Il loro avvenimento poteva essere collocato nel tempo e nello spazio. La prima visione di Ezechiele, ad esempio, avvenne “l’anno trentesimo, il quinto giorno del quarto mese […], essendo presso il fiume Kebar, fra quelli ch’erano stati menati in cattività” (Ez 1:1).
Anche il contenuto dei loro messaggi era ben preciso. Non si trattava di una convinzione che si sviluppava nell’animo del profeta, non fluiva gradualmente durante un lungo periodo. Né si trattava di una vaga impressione nella mente del profeta. Il contenuto era vivido e preciso. I profeti stessi, a volte, non riuscivano neppure ad afferrare il senso di ciò che vedevano e udivano (cfr. Dn 8:27), ma comprendevano molto bene il significato dell’esperienza in sé.
Un’altra caratteristica dell’esperienza profetica è che essa includeva un incontro con il potere divino. I profeti erano assolutamente certi della fonte dei loro messaggi. Essi non li attribuirono mai a una sorgente di origine sconosciuta. Non avevano alcun dubbio che Dio stesse comunicando con loro. Condannavano quindi altri che “profetavano di loro senno” (Ez 13:17).
Inoltre c’è da considerare che i profeti non perdevano la coscienza di sé durante queste esperienze. Al contrario, essi diventavano più consapevoli con chi avevano a che fare e dove erano. Abacuc, in una delle sue visioni (Ab 1:13), pose a Dio delle domande, mentre Isaia si sentì terribilmente impuro vedendo la gloria di Dio (Is 6:5). Si vede dunque come la personalità dei profeti non fosse soppressa quando il Signore entrava in contatto con essi.
Queste caratteristiche ci impediscono di considerare l’esperienza dei profeti come una forma di misticismo o di estasi. Le loro visioni giungevano che lo desiderassero o no, e non dovevano prepararsi per averle, né fisicamente né mentalmente. Il ricevere una visione non aveva mai in sé il suo fine ma costituiva il mezzo per raggiungere un fine diverso. Il suo scopo era compiuto solo quando il profeta comunicava il messaggio ricevuto all’uditorio cui era destinato.
Il profeta Gioele dichiara che “negli ultimi giorni, dice Dio, che io spanderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni, e i vostri vecchi sogneranno dei sogni. Anche sui miei servi e sulle mie serve, in quei giorni, spanderò il mio Spirito, e profetizzeranno” (Atti 2: 17-18).
Per saperne di più: assistenza@avventisti.it