Francesco Zenzale – “Bevvero il vino e lodarono gli dèi d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra” (Dn 5:4).
La dissolutezza e l’idolatria sono aspetti della vita spesso sottovalutati. Probabilmente, si ritiene che la spiritualità non sia pertinente al modus vivendi, ma l’apostolo Paolo, nella lettera a Tito, fa presente che “la grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, si è manifestata, e ci insegna a rinunciare all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo” (Tt 2:11-12).
Il termine dissolutezza esprime uno stile di vita immorale, licenzioso, caratterizzato dal piacere fine se stesso. Gesù, nella parabola del figlio prodigo, illustra molto bene il significato di questa parola, evidenziando che “dopo non molti giorni, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente” (Lc 15:13).
Lontano da casa, disarticolato dall’etica e da Dio, i suoi antichi sogni cominciarono a diventare realtà. In quell’assetato godimento s’immerse a corpo morto, vivendo sfrenatamente e sperperando in breve tempo l’eredità. Pensava di avere un conto in banca illimitato e quindi prelevava senza badare alle spese. La febbre del piacere l’aveva accecato a tal punto da non capire che il conto diminuiva. Infatti, rimase a secco! La bella vita era finita, ne cominciava un’altra ben diversa, ma a differenza di quella del re Baldassar, a Babilonia (Dn 5), la sua ebbe un felice epilogo: “Si alzò e tornò da suo padre” (Lc 15:20).
Anche il nostro conto in banca della vita è circoscritto a causa del peccato (Rm 5:12). Perciò, impariamo a gestirlo con saggezza, praticando la giustizia e l’equità, perché “chi ricerca la giustizia e la bontà troverà vita, giustizia e gloria” (Prv 21:21).
L’idolatria è un aspetto parallelo alla dissolutezza, essa riguarda il rapporto con Dio, uno stile di vita spiritualmente licenzioso. Non è tanto legata al culto delle immagini sacre, quanto a una spiritualità sincretica, interiore, che lede la dignità della persona e l’unicità di Dio. L’idolatria è l’estensione di noi stessi. Essa si attualizza in molteplici modi. Si evince dalla raffigurazione antropomorfica della divinità che racconta l’ampliamento della nostra persona, per confluire al culto dei santi, che è espressione estensiva dei nostri desideri e delle nostre sublimate frustrazioni. Tra le due raffigurazioni, la proiezione della nostra persona e dei nostri desideri, possiamo cogliere forme idolatriche annodate al denaro (a tutto ciò si può acquistare) e a ciò che abbiamo e ci circonda. In tal senso la parabola del ricco stolto costituisce un rilevante esempio (Lc 12:16-20).
L’atto idolatrico sottintende il desiderio di essere importanti e di trascendenza, che induce uomini e donne a defraudare se stessi, la propria e l’altrui dignità, spiritualità e unicità di Dio (Es 20:1-6), a vantaggio dell’apparire, dell’applausometro, che in sé costituisce uno status di dipendenza da ciò che è fruibile e friabile (pubblico, immagini, statue, oggetti sacri, ecc.). In breve, l’atto idolatrico si vive nell’illusione di essere eterni, perché l’estensione del sé è legata a ciò che non ha alcun valore assoluto e eterno: “oro, argento, bronzo, ferro, legno e pietra” (Dn 5:4).
La dissolutezza e l’idolatria possono essere defraudate del loro accattivante potere seguendo l’esempio di Gesù, ben evidenziato nella tentazione, nelle seguenti espressioni: “Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio” (Mt 4:4); “Non tentare il Signore Dio tuo” (Mt 4:7); “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto” (Mt 4:10).
Per saperne di più: assistenza@avventisti.it