A ragione Malherbe affermò: «La morte ha dei rigori che non somigliano a nessun altro rigore». É impossibile farla indietreggiare, sopprimerla. Essa è e rimane «la regina degli spaventi» (Gv 18: 14), da tutti temuta e dinanzi alla quale tutti devono inchinarsi, e serba il suo segreto nonostante sia il fenomeno più corrente. É «il problema più terribile che mai abbia assillato gli uomini» (Richet). Una cosa è certa: la morte è la scadenza che nessuno può evitare. La morte, come il male, di cui è la più terribile conseguenza, è un’anomalia della natura, un’intrusa che si è introdotta a causa di un “incidente”, di un disordine che l’oppone in modo irresistibile al bisogno di vita, di gioia, di amore e di eternità che esiste in fondo ad ogni anima umana; una nota stonata nella grande armonia universale. Per i materialisti, la morte è la fine, è il punto terminale del destino umano. Per i tradizionalisti, invece, è un principio, poiché l’anima secondo loro si sottrae per andare o in paradiso a godere direttamente della perfetta beatitudine; o nel purgatorio dove, per un periodo più o meno lungo, espia i peccati che le impediscono di andare in paradiso; o all’inferno dove soffrirà in eterno. Nella Parola di Dio, la morte appare come l’opposto della vita: «Esso non morrà per l’iniquità di suo padre; di certo vivrà» (Ez 18: 17). «Tu morrai e non vivrai più» (Is 38: 1). «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30: 15).