Francesco Zenzale
John M. Fowler – La redenzione ha la sua origine, il suo percorso e il suo punto d’arrivo nell’amore di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Ecco il fondamento sul quale il vangelo intero è costruito e proclamato. Chi crede in Gesù è salvato, e chi non crede è condannato. Il “Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede…poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, come è scritto: ‘Il giusto per fede vivrà’” (Romani 1:16,17).
Ma il semplice fatto che la salvezza s’intrecci con l’amore di Dio ci mostra che la prima limitazione alla grazia di Dio si trova nella risposta umana a tale grazia. “Dio è amore” (1 Giovanni 4:8), e l’amore non può costringere alla fedeltà. Tutto quello che fa Dio, il suo piano creativo, la provvidenza, la redenzione, la relazione, la restaurazione e il giudizio, procede dall’amore. Se non “caccia” alcun peccatore che possa venire a lui (Giovanni 6:37), non può però forzare nessuno a venire a lui contro il suo volere. La libertà di scelta è essenziale nella salvezza: se questa venisse da una fedeltà obbligata a Dio, non sarebbe più l’atto di un Dio amorevole, ma la misura disperata di un super tiranno, qualcosa del tutto diverso dal vero carattere divino. Perciò la grazia di Dio, abbondante, gratuita e onnipotente, non può salvare un peccatore che non voglia accostarsi a lui per accettare, attraverso la fede, la redenzione che Dio ha offerto in Gesù. La nostra libera scelta può effettivamente limitare l’azione della grazia.
Un’altra limitazione della grazia di Dio deriva dall’orgoglio umano di credere di potersi salvare con le proprie opere. La dottrina della giustificazione per opere è vecchia quanto il peccato stesso. “Alla base di ogni religione pagana vi è il principio secondo cui l’uomo può salvarsi con le proprie opere”, scrisse Ellen G. White. La storia del tentativo di trovare salvezza per mezzo delle proprie opere si ripete anche oggi, dopo aver assunto forme svariate: filantropia, etica e stile di vita, umanismo e dirittura morale, giustizia e vangelo sociale, meditazione universale e, persino, ubbidienza ai dieci comandamenti.
Un’altra parola usata per indicare questa assurda pretesa è legalismo. L’apostolo Paolo accusò i galati per esser passati rapidamente “da colui che vi ha chiamati mediante la grazia di Cristo, a un altro vangelo. Che poi non c’è un altro vangelo…” (Galati 1:6). I galati, che avevano accettato Cristo per iniziare un’esperienza di fede in lui (Galati 3:1,2), correvano il serio pericolo di perdere tale esperienza per il fatto di attribuire la loro salvezza alle opere. L’apostolo domandò loro: “Avete ricevuto lo Spirito per mezzo delle opere della legge o mediante la predicazione della fede?” (v. 2).
Paolo fu estremamente risoluto: “Abbiamo… creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; perché dalle opere della legge nessuno sarà giustificato” (Galati 2:16). Ellen G. White scrisse: “L’abito della giustizia di Cristo, tessuto su telai celesti, non contiene un solo filo di preparazione umana”.
Persone buone e oneste, che accettano la salvezza per fede nel Salvatore crocifisso, possono fare un passo indietro verso un cosiddetto “vangelo”, quello delle opere. Ma il legalismo non può mai essere una buona notizia di salvezza, è in realtà la triste notizia di un nuovo peso aggiunto a quello che già un peccatore porta. L’antidoto all’eresia dei galati deve sempre tenere vivo dinanzi al cristiano l’obiettivo della croce. “Ma anche se noi o un angelo dal cielo”, scrisse Paolo, “vi annunziasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema” (Galati 1:8). Ogni limite posto a quest’atto divino è un limite alla grazia.