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Riconciliazione e la “sindrome del fariseo”

Francesco Zenzale
“Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo, e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: ‘O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo’. Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: ‘O Dio, abbi pietà di me, peccatore!’. Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s’innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato” (Luca 18:9-14).
Un’altra elegante forma di stile proiettivo è quella di chi si ritiene scontatamente superiore agli altri, al punto da disprezzarli, in modo più o meno implicito, o almeno da condannarli nel suo cuore. È il tipico atteggiamento farisaico del racconto introduttivo e che stranamente si manifesta proprio in un contesto di preghiera. Quali possono essere le caratteristiche di questa sindrome dell’uomo “pio”? Innanzitutto l’incapacità di guardarsi dentro, l’assenza di coraggio di cogliere il proprio male. È come se il suo esame di coscienza lo limitasse alla sola zona positiva, con conseguenze per la relazione con Dio e con gli uomini.
Quest’uomo “orante”, in realtà, non comunica con Dio (Luca dice che pregava “tra sé” o “dentro di sé”), perché pregare è riconoscere la distanza che ci separa da Dio, e accogliere con gratitudine il Padre che ci viene incontro nonostante la nostra indegnità e il nostro peccato. Al di fuori della coscienza di questo male, esiste solo il soliloquio vano e presuntuoso di chi celebra il suo io e i suoi meriti di fronte a Dio.
In secondo luogo, se mi identifico nel fariseo, scatterà in me una singolare mania della contrapposizione, la cui funzione sarà esattamente quella di sempre, cioè ritenermi davvero migliore. Come? Facendo all’altro l’esame di coscienza, cioè esaminandolo proprio su quegli aspetti che ho trovato positivi in me stesso e sui quali so di poter vincere il confronto.
In breve, l’orgoglioso crede di non avere bisogno di nulla e in questo modo chiude il suo cuore all’influsso e alle benedizioni del Salvatore. Non c’è spazio per Gesù nel cuore di una persona simile. Ma, il povero pubblicano non osa alzare gli occhi al cielo e grida: “… O Dio, abbi pietà di me, peccatore!” (Luca 18:13). Ed è esaudito.