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Noi, Dio e la speranza

Notizie Avventiste/Francesco Zenzale
“Per non morire non dovevo nascere”. Queste sono le parole che mia madre mi sussurrò all’orecchio, una domenica di tanto tempo fa. Dal nostro primo giorno di vita portiamo in noi un germe di morte, ma non posso rassegnarmi al fatto che la mia vita debba concludersi, nel momento in cui meno me l’aspetto, con la morte. Che cosa devo fare per assicurarmi la vita eterna? La risposta è semplice esaminando ciò che disse l’apostolo Paolo al carceriere di Filippi: “Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato tu e la tua famiglia” (Atti 16:31). Ma ho l’impressione che pochi sanno che cosa implica il credere in Gesù.
Mia madre è morta da circa un mese e, pur non essendo della stessa mia fede, credeva in Gesù e in tutto ciò che la chiesa di appartenenza le aveva insegnato. Era una donna che, nella sua fragilità e senza la piena conoscenza della Parola di Dio, amava il Signore e si applicava nelle cose religiose, tutti i giorni. Nel suo intimo, per quanto le sue labbra recitassero delle preghiere, era possibile cogliere una intensa religiosità. La sua vita è stata caratterizzata dal senso di responsabilità familiare e sociale intrisa da quella spiritualità che ha contraddistinto il suo tortuoso e doloroso percorso di vita. Le sarò per sempre grato per tutto ciò che ha fatto per me e per le mie sorelle.
“La triade dell’esistenza umana, la sofferenza, la colpa e la morte, sono aperte alla speranza, e quindi possono essere trasformate in una conquista, in un’autentica prestazione umana, a patto che si assuma nei loro confronti un atteggiamento e un’impostazione giusti” (V. E. Frankl). Dall’albero della vita è sempre sbocciato un nuovo fiore; per l’uomo questo esprime il bisogno di andare oltre lo stato presente. Ciò è scritto nei nostri geni, nella nostra mente e nel nostro cuore. Nessuna morte è mai definitiva, tranne la morte seconda, perché Dio ha “messo nel cuore dell’uomo il pensiero dell’eternità” (Ecclesiaste 3: 11).