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Noi, Dio e la fede

Notizie Avventiste/Francesco Zenzale
“Egli è pieno d’orgoglio, non agisce rettamente; ma il giusto vivrà per la sua fede” (Abacuc 2:4).
La digitalizzazione della vita da una parte sta creando dei credenti sempre più impazienti e bisognosi di speciali riunioni improntate sulla risposta immediata di Dio, dall’altra promuove la perdita della spiritualità caratterizzata dalla rassegnazione. Ma Dio non si lascia intrappolare dal culto dell’immediato, come spesso accade a noi, e non cede alla rassegnazione.
Quasi ogni giorno ricevo delle email imbevute di quel senso di inerzia e di abbandono. Uomini e donne che continuamente si chiedono: perché Dio non risponde? Perché non esaudisce le mie preghiere? Sono anni che soffro, perché…
Mi resta difficile capire l’agire di Dio nella mia vita, come nella vita di chi si rivolge a me per una parola di conforto o per avere delle risposte, perché ci sono delle cose che la gente sa di noi e che noi non sappiamo; delle altre che gli altri sanno e che noi sappiamo; altre ancora che solo noi conosciamo di noi stessi. Ci sono soprattutto delle cose che né gli altri né noi stessi conosciamo, ma unicamente Dio.
Pertanto, ho fiducia che ogni anelito sarà accolto da Dio nella sua ghirba: “Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime nell’otre tuo; non le registri forse nel tuo libro?” (Salmo 56:8).
C’è un capitolo nella Bibbia, che per me resta difficile da capire, sull’agire di Dio di fronte alla sofferenza, è l’undicesimo della Lettera agli Ebrei, il capitolo della fede, dove troviamo uomini e donne che sono benedette da Dio in un modo diverso rispetto ad altri: “Enoc rapito in cielo perché non vedesse la morte” (v. 5); alcuni “spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, guarirono da infermità, divennero forti in guerra, misero in fuga eserciti stranieri” (v. 34); ci furono anche delle “donne che riebbero per risurrezione i loro morti”, ma “altri furono torturati… messi alla prova con scherni, frustate, anche catene e prigionia. Furono lapidati, segati, uccisi di spada; andarono attorno coperti di pelli di pecora e di capra; bisognosi, afflitti, maltrattati erranti per deserti, monti, spelonche e per le grotte della terra” (v. 35-38).
Ciò che unisce questi credenti dalle vite diverse è la fede (v. 39), che non è una bandiera da portarsi in gloria “ma una candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d’inverno. I credenti non devono sentirsi come un esercito di soldati che cammina in trionfo e trae orgoglio e forza dal fatto di formare una schiera numerosa e unita. A Dio non piace di essere amato come gli eserciti amano la vittoria”. Sono parole forti, queste, annotate da una scrittrice “laica” come Natalia Ginzburg nel volume Mai devi domandarmi (1970), ma significative.
A una specifica richiesta, dopo aver pregato tre volte, Dio rispose a Paolo: “La mia grazia ti basta” (2 Corinzi 12:9). Dio non esaudì la sua richiesta come sperava, ciononostante Paolo proseguì il suo audace viaggio nella fede, senza mai perdere di vista la grazia: Cristo Gesù. Più tardi comprese il motivo per cui non fu guarito: “affinché io non insuperbisca” (2 Corinzi 12:7).
Dio vede la fine sin dal principio. Egli è infinito e onnisciente, coglie la nostra sofferenza e la realtà nel suo insieme. Vede le conseguenze sin dal principio, pertanto ci esaudisce secondo la sua volontà. Ma non solo, egli valuta la nostra richiesta in previsione della vita eterna. Per il nostro bene futuro ed eterno, a volte ci esaudisce in modo diverso da come noi desideriamo. Pertanto, “accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Ebrei 4:16).